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Elisa Vignali su “I giorni dell’acqua” di Rossella Renzi

Rossella Renzi cura per Kolibris la rubrica Donne in poesia

Rossella Renzi, I giorni dell’acqua, L’Arcolaio, Forlì, 2009

I giorni dell’acqua (L’Arcolaio, 2009), opera prima di Rossella Renzi, si compone di appena trenta testi, suddivisi in quattro sezioni. Un libro misurato, dunque, ma nondimeno caratterizzato da concentrazione lirica e tensione emotiva. Vi si possono riconoscere, fin dal titolo, gli attributi di quella che si è soliti identificare con la scrittura cosiddetta ‘al femminile’: in primo luogo l’archetipo del materno, veicolato dalle immagini dell’acqua, del sangue, della terra e dell’albero, simboli di fecondità e di nascita. Lo stesso leitmotiv dell’acqua inscrive la raccolta nel segno di un liquidità che non è come vedremo, solo di ordine tematico, ma coinvolge anche la tessitura formale di questi versi. Ed è poi significativo che la dimensione temporale sia scandita, fin dal titolo, dall’elemento equoreo, come a ricondurre di nuovo l’uomo a un tempo ciclico, in quello spazio indefinito, per l’appunto liquido, dove le distanze sono annullate. La poesia della Renzi è costruita per polarità contrapposte: buio della notte vs luce, acqua vs fuoco, fluidità vs pietrificazione della materia. La metamorfosi coinvolge tanto la parola poetica quanto il soggetto che scrive, continuamente oscillante tra dimensione umana e animale: «Ma la scheggia di sangue fuori dal corpo/ il sorso di miele che rimane/ donna con verso di animale», e ancora: «Io nella bocca ho il sapore del ferro/ mentre piano annuso la terra/ cerco le tracce di una salvezza»; «Sono dentro a rotolarmi come un animale impazzito». A smentire l’impressione di un’integrazione pacifica dell’io con il mondo, secondo la prospettiva di un idillio naturale, è però l’introduzione di alcune spie lessicali che appartengono al campo semantico della tenzone e della morte. Ecco, dunque, comparire in sequenza espressioni di tal fatta: «dove il sangue delle madri», «se ancora duri dopo il massacro», «i capelli incrostati nel fango/ così piccola in questa morte», «i bambini assetati/ di sera mi strappano gli occhi», «Nelle loro piccole mani/ portano segni atroci», «la scheggia che gli ha trafitto l’occhio». Come si può ben vedere da questi pochi prelievi testuali, i versi della raccolta sono versi di morte e di rinascita, in accordo col ritmo naturale della vita. Che cosa, poi, voglia dire, morire, ce lo dice lo stesso soggetto scrivente: «Vuol dire/ sciogliere le corde che trattengono il corpo/ stendere gli arti fino a toccarti/ nel centro del tempo. Finire». Dove ‘finire’ varrà anche un ricominciare, per fare ritorno al grembo materno da cui tutto trae origine, per abbandonarsi infine al flusso della materia in divenire. E sembra di sentire l’eco di alcuni versi della poetessa lussemburghese Anise Koltz (una delle tante autrici omaggiate dalla Renzi con citazioni interne al libro) che del poeta dice: «Scrivendo mette in moto l’eternità e invita la morte a mangiare versi».
Se dovessimo trovare un aggettivo adatto a descrivere la poesia della Renzi, dovremmo forse ricorrere a quello di ‘liquido’ suggeritoci dal titolo: dal momento che ci troviamo di fronte a una poesia che ha abolito i confini certi, primi fra tutti quelli che certificano l’identità di una persona; una poesia dove gli estremi si toccano, spesso arrivando a confondersi. «Mi stai accanto con passo di lupo/ adesso che non sono terra/ che non sono padre che non sono madre»: basti questo solo esempio, in cui la triplice anafora marca uno statuto identitario indefinito, privo di referenti saldi.
Liquidi sono i versi di questa raccolta anche su un piano formale, perché tendono a riprodurre il movimento fluido dell’acqua, vuoi per la musicalità interna ottenuta mediante l’uso insistito di ripetizioni, rime e riprese foniche, vuoi attraverso lo stesso giro sintattico del verso. Ne risulta una parola musicale, e ciò non deve stupire in un’autrice allo stesso tempo ideatrice del progetto Mousiké Techne, che appunto prevede la contaminazione profonda di parola e suono.
Quanto, poi, c’è di religioso in questi versi è di una religiosità creaturale, epurata da elementi normativi e riportata alla sua dimensione originaria. Il dialogo con il sacro avviene nei modi del dubbio, dell’interrogazione problematica, della parola carica di inquietudine, comunque lontana da pretese assolutizzanti. Si dovrà allora, più propriamente, parlare di ‘nostalgia del sacro’ (un po’ come avviene in certe poesie di Giovanna Sicari, peraltro citata in esergo alla raccolta). Un sacro che richiede di essere ogni volta pazientemente ritrovato e ricomposto nella misura interiore e in quella dei versi. E in effetti si potrebbe parlare di questi testi anche come di testi liturgici, contrassegnati da una matrice rituale. E si vuole intendere una ritualità laica, in cui il sacro si mescola con il profano, e il linguaggio ‘elementare’, ridotto all’essenziale, al limite della preghiera, corrisponde all’intento primario di risillabare il mondo, come se fosse necessario azzerare il vocabolario poetico prima di recuperare le origini della parola autentica. Ecco, allora, che i versi collocati in esergo alla sezione Tra le mani, ancora di Anise Koltz, mi pare compendino bene le intenzioni sottese all’intera raccolta: «Invece di preghiere/ recito le lettere dell’alfabeto».
In conclusione, è dentro una poesia che intende sottrarre il naturale al dominio dell’artificiale, nel segno di un’ecologia della parola, che va riconosciuto l’impegno, la matrice etica di chi scrive. E mi sembra che in tale impulso – al di là di certi limiti, in parte inevitabili in un’opera prima –  si possa precisamente far consistere il significato più intimo del libro preso in esame. Insomma, una buona base da cui un’autrice, da sempre attenta al valore pedagogico della letteratura, può partire per approfondire la sua ricerca stilistica che è tutt’uno con quella interiore.

Elisa Vignali

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