Tra la giustificazione e il chiedere ragione
sarebbe teodicea se fosse presente un Dio a cui render conto,
ma Ranieri ha solo il foglio per scavare in quelle regioni profonde
del male assoluto.
Denso di fiure della desolazione, ma scarico di disperazione,
come se tutto fosse avvenuto e si potesse solo rintracciare
in quella balia tra il tessere e il dimenticare.
Un uso sapiente delle figure dell’addio che non sono mai congedo,
ma richiamo nel “tempo che passa da una parola all’altra”.
Il dolore senza redenzione diventa il terreno dello scontro,
il luogo dove tutto accade in quello stesso nero dove talvolta si scende scivolando e altre precipitando
come il paradiso perduto da cui non si scende, ma si cade.
In tutta la prima sezione la luce si intravvede, ma non arriva
non per l’incapacità di essere accolta, ma perché ancora troppo profondo
è il velo da squarciare, quel velo che ha intessuto su di sé
“i nomi di tutte le scomparse”
Ci sono passaggi in tutta la raccolta di Ranieri dove il lettore potrebbe attendersi
un’invocazione o un’imprecazione al classico Dio che non ci vuole,
ma Ranieri è troppo saggio o troppo provato per questa “destinazione minore”.
Allora è sempre lo sguardo a venire in soccorso, lo sguardo della contemplazione
e quello dell’impotenza, lo sguardo che ricompone questa “biografia dell’oscurità”
che potrebbe fare da sottotitolo a tutto il lavoro.
Una parola va spesa in merito all’ultima sezione del libro:” dove siamo scritti”
che non racchiude di fatto una domanda, ma la consapevolezza di un ulteriore
spaesamento che è ancora l’ansia dell’altrove e non quella dell’altrimenti
alessandro assiri
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sì.