Da La nudità, PeQuod, 2010.
Lettere inverse
Se a mezz’aria nel freddo e nel sole di febbraio si dessero
feste e compleanni con personaggi strani e depravati
in latrine e club privati per amori a ore
così da farne un libro alla Houellebecq,
forse anch’io avrei molto da dire, anche i particolari
delle cose accadute veramente e le direi
senza farmi violenza, finalmente, facendo
quello che meglio mi riesce, stare a guardare il cielo,
attraversare l’aria, senza badare a niente,
non pensando a quanto perdo proprio in quel momento,
sentendo che è trascorsa e non è mia
questa bocca cucita sulla vita
che rimescola se stessa ora dopo ora, rimpinzata
di celeste al tramonto,
quando si passa infiniti e inosservati.
La resa
Se sono solo io la meta di me stesso, allora
il sole è proprio ingenuo e le macchie marroni
della vita e del corpo sono quelle dei gatti in calore
che appena numerati tra le pagine non hanno più vita
di una statua di terracotta a forma di felino.
Ma mentre distrattamente sono solo, non posso
non posso dimenticare che ci sono il sole,
il sole e i gatti, i gatti e il mestiere
di lasciarsi andare via salutando gli anni spesi male,
e alla fine la colpa è solo mia anche quando
appartiene anche agli altri.
È tutto interno al senso dell’avere, che non è nostro per sempre,
il lavoro di balbettare, quello di mimare le parole
attraverso gesti strani che non sono miei eppure
continuo a ripetere con forza
mentre scrivere di un cesto è diventato
soltanto nominare ciò che esiste,
ciò che conviene dire quando il tempo è opaco
ci sono le nuvole di fumo e all’orecchio
che non ce la fa più a mentire
si aggiunge l’aria sporca dei piloni del telefono,
della luce e dei radar,
e tutto finisce condannato, dentro palazzi deformi,
e quando ci abiti davvero
ti senti sempre più morire dentro.
Dissolvimento
A mio padre
Diciamo pure ch’eri fatto come una miccia o una stiva
che ti attaccavi anche all’aria che non respiravi
perché sapevi cos’era perdere ogni cosa
all’improvviso o lungamente, calpestandoti o guarendo.
Fissandomi all’interno dei tuoi pensieri irreali
guarda come la tua vita s’è incuneata nella mia,
trasformandoti sempre e modificando anche me
che ora perdo scrivendoti e ricostruendoti altrove
così lontano da casa da non sapere dove
ci siamo mai visti, conosciuti o rinfacciati,
se fossimo mai nati e se è vero che eravamo.
Pibe de oro
Assisteremo ancora in mondovisione
alle bravure mitiche di Diego
ma non diranno che avevo nove anni quando sbarcò a Napoli
e che tutto allora sapeva di speranza anche per me
protetto dal mondo e dalla mondovisione,
senza scale da salire né niente da promettere,
solo una tavola apparecchiata con povertà e grandezza
di chi vive senza sapere come né perché
contento di aver visto la luce un altro giorno
e che un altro giorno la luce si sia accesa anche di sera,
forse non pensando che il bello sarebbe finito
come finisce un calciatore o un matrimonio
e che senza badare a me non avrei fatto molto,
solo ricordare che c’era qualcuno in mondovisione
che potevo diventare come lui,
quelle cose che si pensano a nove anni,
sotto la carezza di chi ti ama proprio adesso
e ti darebbe il mondo vero se potesse
ma non lo dice come si dovrebbe
perché niente in fondo si sa dire
e ancora meno, ancora meno, si conosce.
Animazione
La stanchezza di pensare è come il morbido
di questo cuscino, che è anche un cedimento di lenzuola,
un tradimento di se stessi, perché si è troppo calmi
e io questo di certo non lo voglio: la mia giornata
è clonarmi in tutto, sentirmi in chiunque, parlare lingue strane
per fare due più due con chi entra in un bar;
e se due più due per me fa sempre cinque, io divento
la madre nel parco, l’uomo che va in barca,
la sera quando scende a scadenza del tempo:
chissà cosa prova la sera quando scende, ma poi
non è vero che scende: cambia colore, toglie la luce,
ma non è altro che noi che la guardiamo.
Non ho nessuna pelle e assomiglio a tutto,
eppure cerco qualcosa che sia io: una pietra o un’idea,
un essere indifeso per essere sicuro che così
lo si ama. Le parole, quelle sane, lasciamole al sudore
di chi un’identità l’ha già trovata, magari tra i bagagli
in un aereo che dia diritto a una vita sola.
Bella la parola identità, ma chi ne ha colto il frutto,
povero figlio di te stesso, se lo tiene per sé:
stanne certo come il sangue dei lupi.
Meta
Come un essere destinato a non correre più rischi
vedo la vita scrollarsi di dosso ogni sincerità,
basta solo non chiederle più niente,
non cercare il contatto con le sue mani anchilosate.
Entrando nel villino come un nuovo padrone
arrivato in autostrada da un futuro meno oscuro,
penso a quanto ogni persona sia distante,
e abbia un solo modo di sfuggirsi tra le mani,
comune a tutte le creature che penano.
Ma questa casa è così immaginaria
da non poter dire con che mente svuotata
esco dall’auto senza più un desiderio
e mi consegno soltanto a me stesso,
a una solitudine ignota ma molto più grande.
Dove eravamo
Come è stato il doverci rincontrare
senza saperci ridare, con la melassa della notte
che ci respirava nei polmoni, una notte canuta
come le ali del cielo sventolanti e noi,
all’interno, respirati dalle ore del silenzio,
avvolti su noi stessi fomentando il piacere.
Ci siamo sfamati come cani brancolanti
sotto i balconi dell’albergo, inghiottiti
in una fornace di buio, una cascata
di carne lucente che ci riconosceva e per questo
ci spingeva più a fondo
verso la canna fumaria del mondo.
Si sentiva un cono d’aria che mancava, ai confini
di quel letto, così sporco di noi che quasi
crollavamo in un burrone. Come forme spiranti
ci assistemmo nel vizio di parlare,
di provare l’amore nelle sue tre persone,
il sangue, la pelle, la vergogna aitante del male.
Deflusso
È bene che qualcuno ci aspetti finita la settimana,
un venerdì sera che non è come gli altri,
mentre arriviamo in un luogo fermo e vivo nella mente
senza più voce, amalgamandoci a esso,
e se ancora ci dice qualcosa, quando torniamo stanchi,
sembra un corpo svestito con le anche penzolanti
che resiste all’urto delle mani cittadine.
Il ponte con sotto il Garigliano, il Redentore,
una conca di case a Mercogliano, il porto a Recanati,
lo stile romanico dei colli verso Ancona:
tutto va bene, basta che sia provincia e che ci colga,
come fosse imprevista,
quattro volte in un mese la giornata più attesa.
Non mettiamo davanti agli occhi cose spoglie,
è solo una parte di noi che ci distoglie
da quante vite ci sono senza pace e se solo
la notte fosse eterna, in questo venerdì,
vedremmo che il mondo non tornerà lo stesso,
non ci assomiglia più, si è ritirato in noi.
Moderato con violenza
Come un mare non ancora potato né descritto
strappa via da sé ogni alga e corallo
e resta nudo come fosse stato dragato
mentre arriva pianissimo alla pagina,
ma dopo è difficile parlarne
di questa creatura che dorme al sole
senza pensare a persone
che hanno strappato da sé la propria vita
con un ferro rovente o una tenaglia
da criminale, senza un vero motivo,
solo per farsi più male o perché l’hanno sentita
questa voglia di annullarsi per essere obbedienti,
pensiamo a negozi con la serranda a mezz’asta,
a barche capovolte sotto il pelo dell’acqua,
a uomini colpevoli come me, insomma,
che ancora di questa colpa cercano ragione.
Feria
Ricordo quasi più che intensamente
cos’era quell’aria di compleanno durante un giorno feriale,
un frenarsi dell’anno ogni primo dicembre
l’unica festa a cadere per riunirci
e comprenderci attraverso le parole,
in montagna dove all’una ci davamo appuntamento,
lontano dal silenzio che regnava tra di noi;
volevamo anche noi esistere
nell’incertezza e in allegria,
per questo chiusa la porta al ritorno era come
non fosse mai successo, come non fosse vero.
Non so cos’è accaduto e perché oggi sa di lacrime
questo primo dicembre di molti anni dopo,
o perché non ci siamo mai voluti amare in pace
pensando a quanto poco è il bene che ci tocca,
e giorno per giorno abbiamo completato
una trama di gente costretta a starsi accanto.
1 dicembre 2008, compleanno
di Ilario e Giuseppe,
mio fratello e mio padre
Parlano
«Hanno passato mesi a guardarmi la faccia, a vederla
cambiare nel sonno, a chiedermi cosa facevo prima di
quella brutta caduta nel silenzio e nel buio senza ritorno.
Hanno infilato aghi, cambiato federe, fatto attenzione
al decubito e alle correnti d’aria. Hanno spento e riacceso
la luce ogni sera. Mi hanno messo davanti un televisore.
Forse è il miocardio il problema o forse la mente o
il cuore, in quell’altra accezione, che portano allo sfascio
il resto del corpo, somatizzando, somatizzando, gli altri organi
di un organo a canne senza più fiato si sono ammalati.
Ora dovranno dirmi quando tornare e quali sono
le cure per casa, mettermi un foglio in mano
con i medicinali, un cellulare e le ore buone per guarire.
Poi mi diranno che è stato solo un brutto sogno
e di non farlo di nuovo. Ma io lo so che è stato
tutto vero e che mi hanno salvato, che stavo morendo
e che io lo volevo, come ora vorrei prendere
il loro ricettario e scansarmi la vita di nascosto
per tornare a dormire sicuro di non essere interrotto
ma questa volta non vorrei essere nei miei panni».
Milano Centrale
La massa amorfa dei palazzi di Milano
è sfocata e perpetua come un occhio che brilla
per il pianto, ripensando a queste strade sconosciute
e millantate di successo e convivenza.
Io le costeggio come un animale
di una razza ancora da inventare, e a metà
del filo del discorso vorrei urlare
perché spunti la luna, o si illumini un lampione
e mi orienti da lontano
spingendomi tra queste pietre disumane.
Che un uomo si perda dove tutti stanno male
è incredibile se lo si dà a vedere,
perché una città serve a vivere in carriera
e magari non si illude che le strade siano vere.
Ma poi mi arriva come una rassegnazione
di finestre innevate da tanto di quel sole
che ignoro Milano e il treno non mi pesa,
basta che il mio vagone si agganci a un lieto fine
e la vita mi riprenda per mano come un fiore.
Ai poeti del secolo 21
Ci sono tulipani e begonie a un chilometro da qui
un solo chilometro dall’inverno e dalla pioggia
ma io rimango a qualche metro di campeggio
fuori città, come il buon amico Saba,
che aspettava lettere di due anni prima a vuoto.
Non mi interessa più fare il campione
di galateo plebeo e intelligenza interessata
e solo questi fiori posso dare, tulipani e begonie
fuori stagione, strappati da un mondo sotto sale
di veleno e indifferenza che vi annienterà tutti.
Ma è a te che li porto questi fiori
come è vero che non c’è altro motivo
che farti entrare in questo libro facile e vicino
che ti cerca e ti trascina nel tuo mondo
non per restarti in cuore, come in fondo vorrebbe,
ma per dirti chi eri e cosa hai perso
per diventare qualcuno o qualcosa,
mentre siamo niente, fratello, siamo niente.
Stelvio Di Spigno è nato a Napoli nel 1975. È laureato e addottorato in Letteratura Italiana presso l’Università “l’Orientale” di Napoli. Ha pubblicato la silloge Il mattino della scelta in Poesia contemporanea. Settimo quaderno italiano, a cura di Franco Buffoni (Marcos y Marcos, Milano 2001), i volumi di versi Mattinale (Sometti, Mantova 2002, Premio Andes; 2ed. accresciuta Caramanica, Marina di Minturno 2006), Formazione del bianco (Manni, Lecce 2007), La nudità (PeQuod, Ancona 2010) e la monografia Le “Memorie della mia vita” di Giacomo Leopardi – Analisi psicologica cognitivo-comportamentale (L’Orientale Editrice, Napoli 2007). Vive a Gaeta.
Categories: Italian Poetry
Amo molto la sua poesia, la sua misura.
Grazie per averlo proposto, Chiara.
Condivido.
Anna