Italian Poetry

Stelvio Di Spigno, “La nudità”, peQuod 2010


Da La nudità, PeQuod, 2010.

 

Lettere inverse

Se a mezz’aria nel freddo e nel sole di febbraio si dessero

feste e compleanni con personaggi strani e depravati

in latrine e club privati per amori a ore

così da farne un libro alla Houellebecq,

forse anch’io avrei molto da dire, anche i particolari

delle cose accadute veramente e le direi

senza farmi violenza, finalmente, facendo

quello che meglio mi riesce, stare a guardare il cielo,

attraversare l’aria, senza badare a niente,

non pensando a quanto perdo proprio in quel momento,

sentendo che è trascorsa e non è mia

questa bocca cucita sulla vita

che rimescola se stessa ora dopo ora, rimpinzata

di celeste al tramonto,

quando si passa infiniti e inosservati.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La resa

 

Se sono solo io la meta di me stesso, allora

il sole è proprio ingenuo e le macchie marroni

della vita e del corpo sono quelle dei gatti in calore

che appena numerati tra le pagine non hanno più vita

di una statua di terracotta a forma di felino.

 

Ma mentre distrattamente sono solo, non posso

non posso dimenticare che ci sono il sole,

il sole e i gatti, i gatti e il mestiere

di lasciarsi andare via salutando gli anni spesi male,

e alla fine la colpa è solo mia anche quando

appartiene anche agli altri.

 

È tutto interno al senso dell’avere, che non è nostro per sempre,

il lavoro di balbettare, quello di mimare le parole

attraverso gesti strani che non sono miei eppure

continuo a ripetere con forza

 

mentre scrivere di un cesto è diventato

soltanto nominare ciò che esiste,

ciò che conviene dire quando il tempo è opaco

ci sono le nuvole di fumo e all’orecchio

che non ce la fa più a mentire

 

si aggiunge l’aria sporca dei piloni del telefono,

della luce e dei radar,

e tutto finisce condannato, dentro palazzi deformi,

e quando ci abiti davvero

ti senti sempre più morire dentro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dissolvimento

A mio padre

 

Diciamo pure ch’eri fatto come una miccia o una stiva

che ti attaccavi anche all’aria che non respiravi

perché sapevi cos’era perdere ogni cosa

all’improvviso o lungamente, calpestandoti o guarendo.

 

Fissandomi all’interno dei tuoi pensieri irreali

guarda come la tua vita s’è incuneata nella mia,

trasformandoti sempre e modificando anche me

che ora perdo scrivendoti e ricostruendoti altrove

 

così lontano da casa da non sapere dove

ci siamo mai visti, conosciuti o rinfacciati,

se fossimo mai nati e se è vero che eravamo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Pibe de oro

 

Assisteremo ancora in mondovisione

alle bravure mitiche di Diego

ma non diranno che avevo nove anni quando sbarcò a Napoli

e che tutto allora sapeva di speranza anche per me

protetto dal mondo e dalla mondovisione,

senza scale da salire né niente da promettere,

solo una tavola apparecchiata con povertà e grandezza

di chi vive senza sapere come né perché

contento di aver visto la luce un altro giorno

e che un altro giorno la luce si sia accesa anche di sera,

forse non pensando che il bello sarebbe finito

come finisce un calciatore o un matrimonio

e che senza badare a me non avrei fatto molto,

solo ricordare che c’era qualcuno in mondovisione

che potevo diventare come lui,

quelle cose che si pensano a nove anni,

sotto la carezza di chi ti ama proprio adesso

e ti darebbe il mondo vero se potesse

ma non lo dice come si dovrebbe

perché niente in fondo si sa dire

e ancora meno, ancora meno, si conosce.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Animazione

 

La stanchezza di pensare è come il morbido

di questo cuscino, che è anche un cedimento di lenzuola,

un tradimento di se stessi, perché si è troppo calmi

e io questo di certo non lo voglio: la mia giornata

è clonarmi in tutto, sentirmi in chiunque, parlare lingue strane

per fare due più due con chi entra in un bar;

 

e se due più due per me fa sempre cinque, io divento

la madre nel parco, l’uomo che va in barca,

la sera quando scende a scadenza del tempo:

chissà cosa prova la sera quando scende, ma poi

non è vero che scende: cambia colore, toglie la luce,

ma non è altro che noi che la guardiamo.

 

Non ho nessuna pelle e assomiglio a tutto,

eppure cerco qualcosa che sia io: una pietra o un’idea,

un essere indifeso per essere sicuro che così

lo si ama. Le parole, quelle sane, lasciamole al sudore

di chi un’identità l’ha già trovata, magari tra i bagagli

in un aereo che dia diritto a una vita sola.

 

Bella la parola identità, ma chi ne ha colto il frutto,

povero figlio di te stesso, se lo tiene per sé:

stanne certo come il sangue dei lupi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Meta

 

Come un essere destinato a non correre più rischi

vedo la vita scrollarsi di dosso ogni sincerità,

basta solo non chiederle più niente,

non cercare il contatto con le sue mani anchilosate.

 

Entrando nel villino come un nuovo padrone

arrivato in autostrada da un futuro meno oscuro,

penso a quanto ogni persona sia distante,

e abbia un solo modo di sfuggirsi tra le mani,

comune a tutte le creature che penano.

 

Ma questa casa è così immaginaria

da non poter dire con che mente svuotata

esco dall’auto senza più un desiderio

e mi consegno soltanto a me stesso,

a una solitudine ignota ma molto più grande.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dove eravamo

 

 

Come è stato il doverci rincontrare

senza saperci ridare, con la melassa della notte

che ci respirava nei polmoni, una notte canuta

come le ali del cielo sventolanti e noi,

all’interno, respirati dalle ore del silenzio,

avvolti su noi stessi fomentando il piacere.

 

Ci siamo sfamati come cani brancolanti

sotto i balconi dell’albergo, inghiottiti

in una fornace di buio, una cascata

di carne lucente che ci riconosceva e per questo

ci spingeva più a fondo

verso la canna fumaria del mondo.

 

Si sentiva un cono d’aria che mancava, ai confini

di quel letto, così sporco di noi che quasi

crollavamo in un burrone. Come forme spiranti

ci assistemmo nel vizio di parlare,

di provare l’amore nelle sue tre persone,

il sangue, la pelle, la vergogna aitante del male.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Deflusso

 

È bene che qualcuno ci aspetti finita la settimana,

un venerdì sera che non è come gli altri,

mentre arriviamo in un luogo fermo e vivo nella mente

senza più voce, amalgamandoci a esso,

e se ancora ci dice qualcosa, quando torniamo stanchi,

sembra un corpo svestito con le anche penzolanti

che resiste all’urto delle mani cittadine.

 

Il ponte con sotto il Garigliano, il Redentore,

una conca di case a Mercogliano, il porto a Recanati,

lo stile romanico dei colli verso Ancona:

tutto va bene, basta che sia provincia e che ci colga,

come fosse imprevista,

quattro volte in un mese la giornata più attesa.

 

Non mettiamo davanti agli occhi cose spoglie,

è solo una parte di noi che ci distoglie

da quante vite ci sono senza pace e se solo

la notte fosse eterna, in questo venerdì,

vedremmo che il mondo non tornerà lo stesso,

non ci assomiglia più, si è ritirato in noi.

 

 Moderato con violenza

 

Come un mare non ancora potato né descritto

strappa via da sé ogni alga e corallo

e resta nudo come fosse stato dragato

mentre arriva pianissimo alla pagina,

 

ma dopo è difficile parlarne

di questa creatura che dorme al sole

senza pensare a persone

che hanno strappato da sé la propria vita

 

con un ferro rovente o una tenaglia

da criminale, senza un vero motivo,

solo per farsi più male o perché l’hanno sentita

questa voglia di annullarsi per essere obbedienti,

 

pensiamo a negozi con la serranda a mezz’asta,

a barche capovolte sotto il pelo dell’acqua,

a uomini colpevoli come me, insomma,

che ancora di questa colpa cercano ragione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Feria

 

Ricordo quasi più che intensamente

cos’era quell’aria di compleanno durante un giorno feriale,

un frenarsi dell’anno ogni primo dicembre

 

l’unica festa a cadere per riunirci

e comprenderci attraverso le parole,

in montagna dove all’una ci davamo appuntamento,

lontano dal silenzio che regnava tra di noi;

 

volevamo anche noi esistere

nell’incertezza e in allegria,

per questo chiusa la porta al ritorno era come

non fosse mai successo, come non fosse vero.

 

Non so cos’è accaduto e perché oggi sa di lacrime

questo primo dicembre di molti anni dopo,

o perché non ci siamo mai voluti amare in pace

 

pensando a quanto poco è il bene che ci tocca,

e giorno per giorno abbiamo completato

una trama di gente costretta a starsi accanto.

 

 

 1 dicembre 2008, compleanno

di Ilario e Giuseppe,

mio fratello e mio padre

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Parlano

 

«Hanno passato mesi a guardarmi la faccia, a vederla

cambiare nel sonno, a chiedermi cosa facevo prima di

quella brutta caduta nel silenzio e nel buio senza ritorno.

Hanno infilato aghi, cambiato federe, fatto attenzione

al decubito e alle correnti d’aria. Hanno spento e riacceso

la luce ogni sera. Mi hanno messo davanti un televisore.

Forse è il miocardio il problema o forse la mente o

il cuore, in quell’altra accezione, che portano allo sfascio

il resto del corpo, somatizzando, somatizzando, gli altri organi

di un organo a canne senza più fiato si sono ammalati.

 

Ora dovranno dirmi quando tornare e quali sono

le cure per casa, mettermi un foglio in mano

con i medicinali, un cellulare e le ore buone per guarire.

Poi mi diranno che è stato solo un brutto sogno

e di non farlo di nuovo. Ma io lo so che è stato

tutto vero e che mi hanno salvato, che stavo morendo

e che io lo volevo, come ora vorrei prendere

il loro ricettario e scansarmi la vita di nascosto

per tornare a dormire sicuro di non essere interrotto

ma questa volta non vorrei essere nei miei panni».

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Milano Centrale

 

La massa amorfa dei palazzi di Milano

è sfocata e perpetua come un occhio che brilla

per il pianto, ripensando a queste strade sconosciute

e millantate di successo e convivenza.

 

Io le costeggio come un animale

di una razza ancora da inventare, e a metà

del filo del discorso vorrei urlare

perché spunti la luna, o si illumini un lampione

e mi orienti da lontano

spingendomi tra queste pietre disumane.

 

Che un uomo si perda dove tutti stanno male

è incredibile se lo si dà a vedere,

perché una città serve a vivere in carriera

e magari non si illude che le strade siano vere.

 

Ma poi mi arriva come una rassegnazione

di finestre innevate da tanto di quel sole

che ignoro Milano e il treno non mi pesa,

basta che il mio vagone si agganci a un lieto fine

e la vita mi riprenda per mano come un fiore.


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ai poeti del secolo 21

 

Ci sono tulipani e begonie a un chilometro da qui

un solo chilometro dall’inverno e dalla pioggia

ma io rimango a qualche metro di campeggio

fuori città, come il buon amico Saba,

che aspettava lettere di due anni prima a vuoto.

 

Non mi interessa più fare il campione

di galateo plebeo e intelligenza interessata

e solo questi fiori posso dare, tulipani e begonie

fuori stagione, strappati da un mondo sotto sale

di veleno e indifferenza che vi annienterà tutti.

 

Ma è a te che li porto questi fiori

come è vero che non c’è altro motivo

che farti entrare in questo libro facile e vicino

che ti cerca e ti trascina nel tuo mondo

non per restarti in cuore, come in fondo vorrebbe,

ma per dirti chi eri e cosa hai perso

per diventare qualcuno o qualcosa,

mentre siamo niente, fratello, siamo niente.


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Stelvio Di Spigno è nato a Napoli nel 1975. È laureato e addottorato in Letteratura Italiana presso l’Università “l’Orientale” di Napoli. Ha pubblicato la silloge Il mattino della scelta in Poesia contemporanea. Settimo quaderno italiano, a cura di Franco Buffoni (Marcos y Marcos, Milano 2001), i volumi di versi Mattinale (Sometti, Mantova 2002, Premio Andes; 2ed. accresciuta Caramanica, Marina di Minturno 2006), Formazione del bianco (Manni, Lecce 2007), La nudità (PeQuod, Ancona 2010) e la monografia Le “Memorie della mia vita” di Giacomo Leopardi – Analisi psicologica cognitivo-comportamentale (L’Orientale Editrice, Napoli 2007). Vive a Gaeta.

 

 

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